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mercoledì 7 maggio 2008

Per quel che vale. Libertà di stampa

Articolo di Vauro Senesi tratto dal DNews del 6 Maggio 2008. Pag.15

www.dnews.eu

I sequestri di serie A e i rapimenti nascosti

Un giornalista della tv Al Jazeera torturato in prigione: ma nessuno ne parla.

Il 3 maggio era la giornata mondiale della libertà di stampa. Proclamata dall’Unesco, per commemorare i tanti giornalisti uccisi o imprigionati, nel tentativo di svolgere il loro lavoro di informazione. A qualcuno saranno tornate alla mente le immagini drammatiche dei video girati dai terroristi: gli appelli disperati di Giuliana Sgrena dall’Iraq, quelli di Daniele Mastrogiacomo dall’Afghanistan. Quante giuste parole di sdegno furono spese (insieme ad altre di infame speculazione) sulla loro condizione di ostaggi. Quanto altrettanto giusto disprezzo fu rovesciato sui loro rapitori. “Barbari” “taglia- gola” “criminali” “t e r r o r i st i ”, sulle colonne dei giornali e dei telegiornali si sprecarono gli insulti. Bene, il primo maggio è stato finalmente liberato un giornalista rapito al confine tra Pakistan e Afghanistan. Ma di lui si è parlato pochissimo. Il rapimento nel silenzio Buona parte dell’opinione pubblica mondiale non aveva avuto neppure notizia del suo rapimento; eppure è avvenuto nel gennaio del 2002. Fatta eccezione per Amnesty International e poche altre organizzazioni, a nessuno interessava granché difendere la libertà di stampa o mobilitarsi perché fosse rilasciato. Il giornalista fu portato, dai suoi rapitori, dal confine pakistano fino a Bagrham in Afghanistan. Lì fu rinchiuso in una gabbia aperta, esposto al freddo ed alle intemperie, malnutrito fu picchiato, torturato e minacciato con i cani. Poi i rapitori lo trasferirono in un altro loro covo, nel sud dell’Afghanistan a Kandahar. Lì le torture e i maltrattamenti continuarono. Gli furono strappati a forza i capelli e la barba, fu molestato sessualmente, minacciato di stupro, gli fu impedito di lavarsi per 100 giorni perché i pidocchi lo continuassero a torturare nei momenti di pausa degli aguzzini. Non trascorse tutti gli anni della sua prigionia a Kandahar, perché i suoi rapitori decisero di nasconderlo in una base più segreta fuori dall’Afghanistan, dove fu ancora torturato con percosse sulla pianta dei piedi e privazione del sonno. Gli fu inferta una profonda ferita al volto che gli fu ricucita malamente e senza anestesia. Mi chiedo come mai di lui si sapesse poco o nulla. Forse perché i suoi rapitori non hanno prodotto video dove l’o st a g g i o potesse appellarsi alle autorità del suo paese. Forse perché il nome del giornalista, Sami Al Haj, è un po’ difficile da pronunciare e memorizzare, specialmente per gli occidentali che sono i paladini della libertà di stampa. Forse perché la testata televisiva per cui lavorava, Al Jazeera, è poco affidabile. Forse perché il suo paese di origine, il Sudan, è un “paese canaglia”. Oforse perché i suoi rapitori non avevano il volto coperto dalla Kufia e i coltellacci alla cintola, ma indossavano e indossano l’uniforme dell’esercito americano e il covo segreto, tanto segreto non è, base Usa di Guantanamo, ancora in funzione, piena di altri ostaggi che, con ogni probabilità stanno ancora oggi subendo gli stessi trattamenti inflitti a Sami. Sarò malizioso ma protendo per questa ultima ipotesi. Mica si può dare dei “barbari” “criminali” “tagliag ole” agli alleati americani, tanto impegnati a portare la libertà e la democrazia. Quelli sono epiteti destinati ai nemici, ai terroristi, appunto.

VAURO SENESI

GI O R N A L I S TA


E V I G N ET T I S TA

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